giovedì 29 agosto 2013

Introduzione alla vita non fascista – di Michel Foucault (1977) Prefazione all'edizione americana dell' Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Fèlix Guattari



Michel Foucault
Introduzione alla vita non fascista (1977)

Durante gli anni 1945-1965 (mi riferisco all’Europa), c’era un modo di pensare ritenuto corretto, un preciso stile del discorso politico, una precisa etica dell’intellettuale. Bisognava avere familiarità con Marx, non lasciare che i sogni vagabondassero troppo distanti da Freud, trattare i sistemi di segni – il significante – col più grande rispetto. Queste erano le tre condizioni che rendevano accettabile quella singolare occupazione che consiste nello scrivere e nell’enunciare una parte di verità su di sé e sulla propria epoca.
Poi giunsero cinque anni brevi, appassionanti, cinque anni di gioie ed enigmi. Alle porte del nostro mondo il Vietnam, ovviamente, e il primo grande colpo inferto ai poteri costituiti. Ma cosa stava accadendo esattamente così addentro le nostre mura? Un amalgama di politica rivoluzionaria e anti-repressiva?
Una guerra condotta su due fronti – lo sfruttamento sociale e la repressione psichica? Un aumento della libido modulato dal conflitto di classe? È possibile. In ogni modo, è attraverso quest’interpretazione familiare e dualista che si è preteso spiegare gli eventi di quegli anni. Il sogno che aveva affascinato, tra la Prima Guerra mondiale e l’avvento del fascismo, le frazioni più utopiste d’Europa – la Germania di Wilhelm Reich e la Francia dei surrealisti – era tornato ad abbracciare la realtà stessa: Marx e Freud illuminati dalla medesima incandescenza. Ma è accaduto proprio questo? È stata davvero una ripresa del progetto utopico degli anni Trenta, sul piano, stavolta, della pratica storica? O c’è stato, al contrario, un movimento verso delle lotte politiche che non si conformavano più al modello prescritto dalla tradizione marxista, verso una esperienza e una tecnologia del desiderio che non erano più freudiani? Sono stati branditi di certo i vecchi stendardi, ma la lotta si è spostata e ha conquistato nuove zone.
L’Anti-Edipo mostra, anzitutto, l’estensione della superficie coperta. Ma fa molto di più. Non si perde nel denigrare i vecchi idoli, pur giocando molto con Freud. E, soprattutto, ci incita ad andare più lontano.


Sarebbe un errore leggere L’Anti-Edipo come il nuovo quadro di riferimento teorico (avrete sentito parlare di questa famosa teoria che ci è stata così spesso annunciata: quella che va ad inglobare tutto, che è assolutamente totalizzante e rassicurante, quella, ci assicurano, della quale «avevamo tanto bisogno» in quest’epoca di dispersione e di specializzazione in cui la «speranza» viene meno). Non bisogna cercare una «filosofia» in questa straordinaria profusione di nozioni nuove e di concetti sorprendenti: L’Anti-Edipo non è un pacchiano Hegel. Io credo che il modo migliore per leggere L’Anti-Edipo sia di avvicinarlo come un’«arte», nel senso in cui si parla, ad esempio, di arte erotica. Fondandosi su nozioni in apparenza astratte come molteplicità, flussi, dispositivi e concatenamenti, l’analisi del rapporto del desiderio con la realtà e con la «macchina» capitalista apporta delle risposte a questioni concrete. Questioni che si preoccupano meno del perché delle cose che del loro come. Come s’introduce il desiderio nel pensiero, nel discorso, nell’azione? In che modo il discorso può e deve dispiegare le sue forze nella sfera della politica e intensificarsi nel processo di rovesciamento dell’ordine stabilito? Ars erotica, ars teoretica, ars politica.
Da cui i tre avversari coi quali L’Anti-Edipo si confronta. Tre avversari che non hanno la stessa forza, che rappresentano gradi diversi di minaccia e che questo libro combatte con mezzi differenti:
1) Gli asceti politici, i militanti cupi, i terroristi della teoria, coloro che vorrebbero preservare l’ordine puro della politica e del discorso politico. I burocrati della rivoluzione e i funzionari della Verità.
2) I tecnici mediocri del desiderio, gli psicanalisti e i semiologi che registrano ogni segno e ogni sintomo, e che vorrebbero ridurre l’organizzazione molteplice del desiderio alla legge binaria di struttura e mancanza.
3) Infine, il nemico maggiore, l’avversario strategico: il fascismo (laddove l’opposizione de’ L’Anti-Edipo agli altri suoi nemici costituisce semmai un impegno tattico). E non soltanto il fascismo storico di Hitler e Mussolini, che ha saputo mobilitare e impiegare così bene il desiderio delle masse, ma anche il fascismo che è in noi, che possiede i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare proprio la cosa che ci domina e ci sfrutta.


Direi che L’Anti-Edipo (possano i suoi autori perdonarmi) è un libro di etica, il primo libro di etica che sia stato scritto in Francia da molto tempo a questa parte (forse è questa la ragione per cui il suo successo non si è limitato ad un «lettorato» particolare: essere anti-edipici è diventato uno stile di vita, un modo di pensiero e di vita). Come fare per non diventare fascisti anche (e soprattutto) quando ci si crede dei militanti rivoluzionari? Come liberare i nostri discorsi e i nostri atti, i nostri cuori e i nostri desideri dal fascismo? Come lavar via il fascismo che si è incrostato nel nostro comportamento? I moralisti cristiani cercavano le tracce della carne installata tra le pieghe dell’anima. Deleuze e Guattari, da parte loro, braccano le più infime tracce di fascismo presenti nel corpo.
Rendendo un modesto omaggio a San Francesco di Sales, si potrebbe dire che L’Anti-Edipo è un’Introduzione alla vita non-fascista.
Quest’arte di vivere, contraria a tutte le forme di fascismo, siano esse interiorizzate o prossime all’essere, si accompagna ad un certo numero di principî essenziali, che io, se dovessi fare di questo grande libro un manuale o una guida per la vita quotidiana, riassumerei come segue:

• liberate l’azione politica da ogni forma di paranoia unitaria e totalizzante;
• fate crescere l’azione, il pensiero e i desideri per proliferazione, giustapposizione e disgiunzione, anziché per suddivisione e gerarchizzazione piramidale;
• affrancatevi dalle vecchie categorie del Negativo (la legge, il limite, la castrazione, la mancanza, la lacuna), che il pensiero occidentale ha così a lungo sacralizzato come forma di potere e modo di accesso alla realtà. Preferite ciò che è positivo e multiplo, la differenza all’uniforme, il flusso alle unità, i dispositivi mobili ai sistemi. Tenete presente che ciò che è produttivo non è sedentario, ma nomade;
• non crediate che si debba esser tristi per essere dei militanti, anche quando la cosa che si combatte è abominevole. È ciò che lega il desiderio alla realtà (e non la sua fuga nelle forme della rappresentazione) a possedere una forza rivoluzionaria;
• non utilizzate il pensiero per dare un valore di verità ad una pratica politica, né l’azione politica per discreditare un pensiero come se fosse una pura speculazione. Utilizzate la pratica politica come un intensificatore del pensiero, e l’analisi come un moltiplicatore delle forme e dei domini d’intervento dell’azione politica;
• non pretendiate dalla politica che ristabilisca i «diritti» dell’individuo per come li ha definiti la filosofia. L’individuo è il prodotto del potere. Occorre invece «disindividualizzare» attraverso la moltiplicazione e la dislocazione dei diversi dispositivi. Il gruppo non deve essere il legame organico che unisce gli individui gerarchizzati, ma un costante generatore di «disindividualizzazione»;
• non innamoratevi del potere.


Si potrebbe addirittura affermare che Deleuze e Guattari amano così poco il potere da mettere in atto il tentativo di neutralizzare gli effetti dei poteri legati al loro stesso discorso. Da qui i giochi e le trappole che si trovano un po’ dappertutto nel libro, e che rendono la sua traduzione un vero tour de force. Ma non si tratta delle trappole familiari della retorica, che cercano di sedurre il lettore senza che egli sia cosciente della manipolazione, finendo per guadagnarlo alla causa degli autori contro la sua volontà. Le trappole de’ L’Anti-Edipo sono quelle dell’humour: altrettanti inviti a lasciarsi espellere, a prendere congedo dal testo sbattendo la porta. Il libro induce spesso a pensare che si tratti solo di giochi e humour laddove succede invece qualcosa d’essenziale, qualcosa che è della più grande serietà: la caccia a tutte le forme di fascismo, da quelle, colossali, che ci circondano e ci schiacciano, fino alle minute forme che fanno l’amara tirannia delle nostre vite quotidiane.



Cités 2012 - N° 49 : Le populisme, contre les peuples?


Table des matières

Le populisme, contre les peuples ?


Éditorial : Yves Charles Zarka, Le populisme et la démocratie des humeurs


I Dossier :
Christian Godin, Présentation
Christian Godin, Qu'est-ce que le populisme ?
Joël Gaubert, Le malaise populiste dans la démocratie contemporaine
Guy Hermet, Les populismes latino-américains
Stephen Launay, Le (néo)populisme de Hugo Chavez


Jean-Pierre Rioux, La tentation populiste


Marc-Vincent Howlett, En attendant le peuple
Jean-Claude Pinson, Du « poétariat » comme démenti au populisme
Mathias Bernard, Des années 1930 aux années 1980 : invariants et mutations du populisme à la française


II Grand article inéditJürgen Habermas, L’Europe paralysée d’effroi : la crise de l’Union européenne à la lumière d’une constitutionnalisation du droit public international


III Vie politiqueJacques de Saint-Victor, Berlusconi: premier bilan
Sur la question italienne 
Francesco Saverio Trincia, Berlusconi, la Ligue du Nord, l’Eglise, et la souveraineté populaire
Gianfranco Borrelli, Berlusconi et la destruction de la société civile italienne


Alessandro Ferrara, L’hégémonie catholique et la vie publique en Italie


Stefano Petrucciani, La catastrophe de l’éthique publique


Autre texte politique


Yves Charles Zarka, De quel président la France a-t-elle besoin?


V RecensionsStéphane Foucart, Le Populisme climatique. Claude Allègre et cie, enquête sur les ennemis de la science, Paris, Denoël, 2010, 315 pages, par Juliette Grange
Herald Welzer, Les Guerres du Climat : Pourquoi on tue au XXIe siècle, Paris, NRF Gallimard, 2009, 365 pages par Sara Vigil
Dominique Reynié, Populismes : la pente fatale, Paris, Plon, 2011, 288 pages, par Christian Godin

venerdì 23 agosto 2013

Frédéric Gros: Foucault, penseur de la violence ? @ Cités, N.50, 23.05.2012 (PUF, France)




Frédéric Gros:  Professeur de philosophie à l’université Paris-Est Créteil, Frédéric Gros est spécialiste de la pensée de Michel Foucault, sur lequel il a écrit de nombreux ouvrages et dont il édite les derniers cours au Collège de France. Ses recherches portent aussi sur les problèmes de guerre et de sécurité. 


Cités 2012 - N° 50


Extrêmes violences

Table des matières

Éditorial : Yves Charles ZarkaRéalité de l’extrême violence et imaginaire de la campagne


I – Dossier : Extrêmes violences
Cristina Ion, Présentation
François Rastier, Néologismes et néonazisme. Sur le diagnostic d’Anders Breivik
Marwan Mohammed, La défiance des bandes : antagonismes sociaux et agressivité collective
David Waddington, Émeutes en Grande-Bretagne et en France : une comparaison
Jean-Claude Caron, Indépassable fratricide. Réflexions sur la guerre civile en France et ailleurs
Laurent Mucchielli, L’émeute, forme élémentaire de la protestation
Denis Merklen, De la violence politique en démocratie
Frédéric Gros, Foucault, penseur de la violence ?



giovedì 22 agosto 2013

Marco d'Eramo: Ben venga il populismo di sinistra @ Il Manifesto, 16 gennaio 2012


Non se ne può più del della sufficienza schifata con cui i commentatori di tutte le sponde declinano i termini “populismo” e “populista”. Cominciamo col dire che nessuno definisce se stesso populista: è un epiteto che ti affibbiano i tuoi nemici politici (un po’ come nessuno si autodefinisce terrorista, ma è chiamato così solo dagli avversari o quando è stato sconfitto: algerini, vietnamiti e fondatori dello stato d’Israele non furono ricordati come terroristi perché le loro guerre le vinsero). In secondo luogo, populista ha non solo lo stesso significato, ma anche la stessa etimo di demagogico, termine che non a caso fu coniato nell’antichità dalle fazioni aristocratiche e senatoriali in spregio alla plebe.

In effetti i nostri opinionisti ostentano nel pronunciare la vituperata parola un tale ludibrio venato di degnazione, neanche fossero tutti elencati nell’almanacco di Gotha, marchesi di Carabas timorosi d’infettarsi a contatto con il volgo (da cui la parola volgare). Però farebbero bene costoro a rileggersi quello straordinario libretto che il grande storico Jules Michelet scrisse due anni prima del maremoto rivoluzionario che avrebbe scosso l’Europa nel 1848, e che appunto s’intitolava Le peuple di cui intonava un romantico peana. Ma nel 2011 un Michelet subirebbe ostracismo immediato. Oggi essere bollati come populisti significa dannarsi all’inferno politico.
Il problema è che i cantori del capitale (come un tempo i giullari dell’aristocrazia) tendono a tacciare di populista qualunque aspirazione popolare. Vuoi la sanità per tutti? Sei proprio un populista (soprattutto negli Stati uniti). Vuoi la tua pensione indicizzata sull’inflazione? Ma che razza di populista! Vuoi poter mandare i tuoi figli all’università senza svenarti? Lo sapevo che sotto sotto eri un populista!

Quando ti appiccicano quest’etichetta addosso non riesci più a staccartela, hai voglia a dire che tu stai esprimendo solo sacrosante aspirazioni popolari. E il marchio è tanto più efficace e indelebile che ci sono davvero dei populisti demagogici e strumentali, per cui tu non vieni semplicemente distorto, vieni appiattito su qualcosa che esiste davvero. È vero che la Lega è cinica e demagogica, ma non ha torto quando dice che il nuovo trattato europeo è scritto in tedesco. Il problema è sempre lo stesso. Non è perché Hitler mangiava che io devo morire d’inedia.
Più in generale, è una lunga storia quella dei populismi del XX secolo che – non a caso – sono fioriti quando le aspirazioni popolari sono state disattese, anzi represse. Non per errore i nazismi e i fascismi nascevano da socialismi deviati, dirottati su linguaggi nazionalisti.
Ma non sempre ha prevalso il «vade retro vulgus!». Vi è stata un’epoca in cui il populismo era di sinistra, anche negli Stati uniti, prima che Ronald Reagan inaugurasse la grande stagione del populismo di destra.

Ecco cosa scriveva due mesi fa non un pericoloso estremista, ma l’ex ministro del lavoro di un presidente moderato come Bill Clinton, Robert Reich, in un articolo tradotto sul manifesto: «Nei primi decenni del XX secolo i democratici non ebbero difficoltà ad abbracciare il populismo economico. Accusavano le grandi concentrazioni industriali di soffocare l’economia e avvelenare la democrazia. Nella campagna del 1912 Woodrow Wilson promise di guidare ‘una crociata contro i poteri che ci hanno governato … hanno limitato il nostro sviluppo… hanno determinato le nostre vite … ci hanno infilato una camicia di forza a loro piacimento’ La lotta per spaccare i trusts sarebbe stata, nelle parole di Wilson, niente meno che ‘una seconda lotta di liberazione’. Wilson fu all’altezza delle sue parole: firmò il Clayton Antitrust Act (che non solo rafforzò le leggi antitrust ma esentò i sindacati dalla loro applicazione), varò la Federal Trade Commission per sradicare «pratiche e azioni scorrette nel commercio» e creò la prima tassa nazionale sui redditi. Anni dopo Franklin D. Roosevelt attaccò il potere finanziario e delle corporations dando ai lavoratori il diritto di sindacalizzarsi, la settimana di 40 ore, il sussidio di disoccupazione e la Social Security (la mutua). Non solo, ma istituì un’alta aliquota di tassazione sui ricchi. Non stupisce che Wall street e la grande impresa lo attaccassero. Nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i ‘monarchici dell’economia’ che avevano ridotto l’intera società al proprio servizio: ‘Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro … tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale’. In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che ‘la sopravvivenza della democrazia’. Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: ‘mai prima d’ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell’odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio’».

A ragione questo linguaggio sarebbe oggi definito «populista». Ma quanto ci piacerebbe sentirlo di nuovo da un leader della (cosiddetta) sinistra! 

martedì 20 agosto 2013

Wu Ming: "Basta col politicamente corretto: riconoscere che il conflitto esiste" @ Repubblica, 14 agosto 2013



Wu Ming at Repubblica website + Wu Ming Foundation

"Basta col politicamente corretto: riconoscere che il conflitto esiste"


Parla il collettivo di scrittura, autore di "Q" e "54". Il senso di comunità e la consapevolezza di una società divisa sono i punti da cui bisogna ricominciare
BOLOGNA - Una caotica battaglia in bilico fra Tolkien, NoTav e Star Wars scoppia sotto le mura di Bologna. È il mural di Blu, writer di successo, su una parete dell'XM24, centro sociale occupato a perenne rischio sgombero. Wu Ming 1 e Wu Ming 4, due "senzanome" del collettivo di scrittura che da Q in poi ha rivisto la tradizione del romanzo storico, hanno voluto farla qui, l'intervista, e si capisce perché: "Si parla sempre da un luogo preciso della storia". Il loro spalto, la loro posizione, la spiegano subito a chi entra in Giap, il loro blog di politica, dove ora si può scaricare l'ebook con "cento storie sulla fine catastrofica del governo Letta": "Siamo di sinistra, una sinistra sociale diffusa, dei movimenti, tendenzialmente extra-istituzionale". 

IL SONDAGGIO Le parole della nuova sinistra

Vuol dire che si può ancora indossare, questa parola, sinistra?
WM1: "Dipende da chi lo fa. Chi sei tu che te la provi addosso? Uomo o donna? Dove vivi? Dipendente o autonomo, stabile o precario? Sinistra non è una parola, è una visione del mondo, non è fatta per un soggetto immaginario, cambia secondo la posizione da cui la dici. Come parola disincarnata è solo un'imperfetta metafora spaziale, bidimensionale, dunque inadeguata perché il mondo è pluridimensionale, e poi ha un sottotesto "parlamentare" che pesa perfino quando la usi in modo extraparlamentare...".

Eppure è sopravvissuta al crollo dei muri... Forse era meno compromessa di altre...
WM1: "Ma no, l'hanno negata in tutti i modi, le hanno affiancato parole-gendarme come "centro-sinistra", parole-commissario come "democratici di sinistra", parole-stampella come "sinistra ecologia e libertà"...". 
WM4: "Non si parte dal chi sei, si parte dal cosa fai. Quei partiti hanno fatto il contrario, hanno messo prima l'insegna di tutto il resto, ma alla fine è rimasta un'etichetta".

Ma "sinistra" continuate a usarla anche voi. 
WM1: "Sì, ma io la uso in subordine, di sfondo, per semplificare durante il discorso, per far capire dove mi colloco, in quale luogo della storia".

Ma voi come ci siete arrivati, nel vostro "luogo della storia"?
WM1: "Siamo figli di metalmeccanici. Estrazione proletaria, come si diceva una volta. Cresci in un ambiente che ti fa capire subito da che parte stai. Tuo padre fa gli scioperi, le occupazioni, cresci in quella famiglia e stai dalla parte dei lavoratori come te".

Un determinismo politico-genetico...

WM4: "È un imprinting, però poi il cervello è plastico, contestualizzi, elabori. Ma sai da dove vieni. Per altri la strada sarà stata diversa, questi siamo noi, non è una legge di natura".

E se nasci borghese?
WM4: "Nella vita possono capitarti tante cose che ti fanno inciampare nel conflitto e ti costringono a schierarti. Non è l'idealità che ti porta da una parte, è l'esperienza di vita".

Non si diventa di sinistra leggendo libri, volete dire?
WM4: "Perché no? In un'intervista, Andrea Camilleri ci ha raccontato di essere diventato comunista leggendo Vittorini. Il conflitto ha molte facce, arriva in molti modi diversi. A te però la scelta, o lo accetti o lo ignori".

Appunto: come scrittori, siete "di sinistra"? 
WM1: "Noi siamo precari dell'industria culturale che attualmente stanno cercando di mettere assieme il pranzo con la cena. Siamo scrittori che vengono da una tradizione di movimento, le occupazioni, le lotte, quel mondo lì, tra movimento politico e controculturale". 

Qualcosa di comune con tutti quelli che si dicono di sinistra lo avrete pure, o no?
WM1: "Se la parola sinistra rispecchia qualcosa di comune è la consapevolezza che la società è divisa. Ma ognuno nel conflitto sociale ha la sua posizione, e i conflitti sono diversi, devi scegliere ogni volta da che parte stare, magari scopri che tu stesso non sei sempre dalla stessa parte". 

Puoi essere di destra o di sinistra più volte al giorno?

WM1: "Sì, puoi essere operaio sfruttato in fabbrica e poi padrone oppressore a casa con tua moglie".

Eppure l'avete difesa, quella parola, da chi sostiene che "non c'è più né destra né sinistra".
WM4: "Perché quella è un'opinione di destra! La destra sostiene che la società è una sola, omogenea, armonica, come una marmellata, peccato per quei grumi fastidiosi, gli allogeni, i disturbatori dell'ordine, il migrante e il dissenziente oggi, il comunista "sovietico" ieri, che vanno espulsi dalla comunità". 
WM1: "Se c'è qualcosa che tiene insieme le tante sinistre, parola imprecisa, è questo atteggiamento, ripartire dalla convinzione che la società è divisa, che il conflitto è endemico, inevitabile. Poi ci sono vari modi per affrontarlo, chiamali marxista, socialdemocratico, anarchico... Puoi cercare di mediare il conflitto, puoi combatterlo, ma se sei di sinistra di certo non puoi negarlo".

Per molti, essere di sinistra è qualcosa di meno bellicoso: è rispettare l'ambiente, pagare le tasse, gestire bene un servizio comunale...

WM4: "... fare la raccolta differenziata... No, la sinistra senza la consapevolezza del conflitto diventa il manuale delle giovani marmotte. Lo snobismo di chi si sente migliore degli altri perché open minded, politicamente corretto. Una pulizia della coscienza con detergenti economici".
WM1: "Non basta il virtuosismo individuale, non devi cambiare la pattumiera in casa, devi cambiare un mondo ridotto a pattumiera, non ti salvi il culo da solo, te lo salvi solo insieme agli altri".
WM4: "Ma conflitto non vuole dire per forza fare a botte con la polizia. Vuol dire come minimo non far finta che non esista. Il processo amianto di Casale è conflitto anche se avviene per via giudiziaria, istituzionale; la causa Thyssen lo stesso, si è visto chiarissimamente chi sta da una parte e chi dall'altra".

Di conflitto ce n'è, in Italia, mi pare. Solo che l'asse sembra essersi ribaltato da orizzontale a verticale, da destra contro sinistra a casta contro non-casta...
WM1: "Una formula fortunata perché semplicistica. Sposta il problema dal sistema al singolo, attribuisce tutte le colpe alla disonestà, alla cattiveria degli individui, sostiene che la partita è truccata perché qualcuno bara, mentre la partita è truccata perché il mazzo di carte è segnato fin dall'inizio. La corruzione è del sistema, non del singolo". 
WM4: "L'Italia è una strana eccezione, forse perché qui c'è stato il grande diversivo del movimento di Grillo che ha rallentato i processi. In tutta Europa e nel Mediterraneo ci sono movimenti che non hanno paura di definirsi. Alla Puerta del Sol di Madrid, il 15 maggio del 2011, gli Indignados hanno disegnato la mappa ideale storica dei movimenti planetari a cui si sentivano apparentati, il contrario dell'atteggiamento grillino o radicale che non accetta mai di stare in un movimento assieme ad altri. Non a caso sono partiti con un capo carismatico".

Ma allora, sinistra è una prassi o una storia? 
WM1: "Una prassi che ha una storia. Sei quello che fai, ma il tuo fare ha un passato, non l'hai inventato tutto tu. C'è un filone che percorre la storia, dalla parte degli oppressi e dei senza-potere, è fatto di scelte anche radicali, e io sto dentro quella storia, altrimenti la parola sinistra la usiamo nel vuoto. È giusto chiedersi di cosa siamo eredi e di cosa siamo parenti".

Non tutto è scintillante in quella storia familiare.
WM4: "Chi non ha un cugino imbarazzante... Ma puoi rifiutare una parentela abusiva. Non mi interessa cosa uno dice di essere, per esempio in quella storia di sinistra Pol Pot per me non ci sta, la sua idea di società omogenea, senza differenza è pura destra". 
WM1: "Il concetto di sinistra è come un file zippato. Lo decomprimi ed esce una storia con le sue prassi. Ma come tutti i file decompressi ti ritrovi in mano un documento semplificato, ci sono parti rimosse, altre impoverite. Tocca a te modificare, completare, adattare, e salvare il nuovo file".

The Surveillance State in Your Head by Reid Smith @ The American Conservative (July 19, 2013)


The Surveillance State in Your Head

by Reid Smith  at The American Conservative

Michel Foucault warned that an all-seeing prison—the panopticon—would mold our character. Has Snowden proved him right?

As revelations about the NSA’s all-seeing surveillance programs continue to trickle out, debate has consisted mostly of quarrels over Edward Snowden’s heroism or villainy, parsings of the potentially perjurious testimony of senior officials, or challenges to the lawfulness and constitutionality of the programs themselves. Very little attention is being given to a subtly important question: what consequences does the surveillance state hold for the character of our culture? One term flirting around the edges of the discourse has the potential to provide an answer: “panopticon.”
The “panopticon”—a creative compound of Greek words to mean “observe all”—was originally conceived as a hypothetical penitentiary by Jeremy Bentham, the 18th-century British utilitarian. The prison was designed around a central tower that would allow the watchman to observe each inmate all of the time, while he himself was obscured from view.
Panopticon
Bentham’s plans for his panopticon
An inmate would never know whether he was being watched—he would have to assume he was under scrutiny and maintain his best behavior; thus order was assured by the presumption of constant surveillance. Bentham introduced his prison as a “new model of obtaining power of mind over mind, in a quantity hitherto without example.” Bentham believed that schools, hospitals, and asylums could all be regimented by his social theory of surveillance and constancy, too. While Bentham’s prison was never built during his lifetime, his theory lived on, achieving cult status in academia as a powerful metaphor for social correction and obedience.
In Discipline and Punish: The Birth of the Prison, French postmodern philosopher Michel Foucault describes a social evolution from the “culture of spectacle” to the “carceral culture.” Once punishment was administered on display: for thousands of years, men were crucified, hanged, and garroted to demonstrate social rights and wrongs. Now, though, we are “disciplined” internally, through the composition of our character.
Foucault suggests that panopticism determines the shape of society and the principles of power. If “Bentham presents it as a particular institution closed in on itself,” Foucault writes that the panopticon today “must be understood as a generalizable model of functioning; a way of defining power relations in term of the everyday life of me,” and as “a figure of political technology that may and must be detached from any specific use.”
Dino Felluga of Purdue University has identified the major themes of Foucault’s panoptical society. It is marked by social internalization of rules and regulation—and our conditioned hesitance to contest unjust law. Rehabilitation is favored over cruel and unusual corporal punishment, and while this change may be superficially kind, the emphasis on normalcy harms those who exist outside the status quo. In Foucault’s words:
The judges of normality are present everywhere. We are in the society of the teacher-judge, the doctor-judge, the educator-judge, the ‘social-worker’-judge; it is on them that the universal reign of the normative is based; and each individual, wherever he may find himself, subjects to it his body, his gestures, his behavior, his aptitudes, his achievements.
Then it gets really scary. Foucault describes the observation of our private lives, as aided by new technology. Felluga notes the French philosopher’s emphasis on surveillance within an emerging information society and a developing bureaucracy that “turns individuals into statistics and paperwork,” followed by an emphasis on the organization of data and specialization of skill.
Sound familiar? What emerges now is the new watchman.
Historian Arthur Schlesinger’s classic The Imperial Presidency cautioned that our system of American governance is threatened by “a conception of presidential power so spacious and peremptory as to imply a radical transformation of the traditional polity.” A postwar atmosphere of pervasive crisis amplified government surveillance and public acquiescence. Before Vietnam and the Watergate scandal, the office had morphed into a pseudo-sultanate, elected by the people but armed virtually unchecked in the global arena.
With the fall of the Soviet Union, there was hope that the imperial presidency would be scaled back by Congress, but such optimism proved hollow. In The Cult of the Presidency, Gene Healy notes that while partisan rhetoric today is as acerbic as it has been in decades, Republicans and Democrats alike accept the bottomless depth of executive responsibility and the president’s unique grasp on power. We’ve normalized dependence on his guidance and our subordination.
The modern president has greatly exceeded, in size and scope, the few enumerated powers initially bestowed upon him and in the process has become a great deal more powerful—and potentially more dangerous. His powers of surveillance and social compulsion are virtually unmatched in human history.
From a Foucauldian perspective, one might argue our president (Bush or Obama, it hardly matters) has staked his claim as our watchman. We become increasingly aware that all we do takes place under surveillance, and our dull surprise at this revelation suggests our submission to the system—the  inevitable outcome of our assent to political power.
Reid Smith is FreedomWorks’s staff writer and editor. Follow him on Twitter@reidtsmith.

lunedì 19 agosto 2013

Luciano Canfora: La democrazia ateniese - Mup, 2012

Se  sotto l'ampio ombrello del termine democrazia si possono comprendere varie esperienze politiche antiche e moderne, è pur vero che la sua realizzazione ateniese così come è presentata da Canfora si dimostra significativamente diversa da ciò che oggi intendiamo per democrazia, soprattutto nel suo legame con l'egualitarismo. D'altro canto numerosi sono i secoli che separano la civiltà greca classica dal tempo odierno e nitido è di certo il marchio che la storia, nel bene e nel male, vi ha fatalmente impresso. 
In fondo è proprio la storia, anche grazie ai rimandi diacronici presentati, ad essere la protagonista in filigrana di queste pagine, una protagonista che spesso liquidiamo con il facile e abusato concetto di magistra vitae, ma che viceversa dovremmo sempre porre in sintonia con il nostro "ascolto" delle cose.
Muovendo dall’analisi del complesso rapporto fra il demo e i gruppi dirigenti, fra la massa del popolo e i leader, Luciano Canfora offre una sua originale lettura del ‘fare politica’ nella democrazia ateniese di età classica e ripercorre le tappe più significative della riflessione moderna, a partire dalla fine del Settecento, su natura, limiti e valore normativo dell’esperienza democratica della polis.

giovedì 15 agosto 2013

Bruce Sterling: La versione di Casaleggio @ Wired (It) 13 agosto 2013

La versione di Casaleggio

di Bruce Sterling @ Wired (It) 13 agosto 2013

L’ho incontrato nel suo ufficio di Milano. Abbiamo parlato di una gran varietà di argomenti. Si è dimostrato lucido e chiaro. Non è affatto oscuro o misterioso. È praticamente trasparente. Con Casaleggio quello che vedi, compri. Ha l’aspetto di uno stratega internet con le abitudini semplici di un militante ecologista. E ha quell’aria lì perché lo è davvero. La cybercultura italiana può essere esotica e bizzarra. Raf “Valvola” Scelsi ed Ermanno “Gomma” Guarneri negli anni ’80 erano due celebri estremisti del network milanese. Valvola e Gomma hanno pubblicato fumetti psichedelici nel corso di occupazioni anarchiche. Li ho conosciuti. Erano tipi pazzeschi. Forse erano le persone più cool della terra. 

Casaleggio è pure lui un appartenente alla cybercultura milanese, ma adesso siamo nel 2013. Si presenta come un gentiluomo sobrio e di età matura, con l’aspetto del secchione, un professionista delle relazioni pubbliche in giacca e cravatta. È calmo, ben organizzato, riflessivo e cauto. Lavora in un ufficio piacevole e modesto nel cuore di Milano, in un bel palazzo d’epoca vicino alla casa di Alessandro Manzoni: «Un sacco di gente ci passa davanti tutti i giorni ma non sa che è la casa di Manzoni. Presto, quando tutte le informazioni che riguardano il mondo intorno a noi ci saranno disponibili, magari grazie a un paio di Google Glass, chiunque avrà accesso in tempo reale, passeggiando, a tutto ciò che c’è da sapere su quel palazzo», dirà sorridendo durante la nostra chiacchierata. Casaleggio dispone di impiegati indaffarati, di computer e di poltroncine da ufficio di buon design. La sua attività di consulenza sulle pubbliche relazioni ha un logo gradevole e una veste tipografica appropriata. Casaleggio porta i capelli lunghi, ma è vicino ai sessanta. È fortunato ad avere capelli così folti. Quel taglio gli dona. È diventato il suo marchio caratteristico. Ci siamo accomodati in una sala riunioni stretta ed elegante, alle pareti parecchi ritagli di giornale incorniciati, che illustrano i notevoli successi conseguiti dal Movimento 5 Stelle. Dato che questa intervista mi è stata commissionata da Wired, ho cominciato a chiedere a Casaleggio del suo hardware. Usa l’iPhone, l’iPad, un Kindle per i parecchi libri che legge, e nel suo ufficio ha diversi pc. 


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domenica 4 agosto 2013

John Armitage (ed.) - The Virilio Dictionary - Edinburgh University Press, May 2013


This is the first dictionary dedicated to the pioneering work of French art and technology critic Paul Virilio. In Virilio's writings, meanings and interpretations are often difficult and ambiguous. This dictionary guides you through his concepts with headwords including Accident, Body, Cinema, Deterritorialization and Eugenics. You can explore the very edge of Virilio's pioneering thought in cultural and social theory with the entries on Foreclosure, Grey Ecology, Polar Inertia and the Overexposed City. The Virilio Dictionary is vital for anyone wanting to keep up with Virilio's dynamic program for the study of postmodern culture. It covers of every major Virilian subject and idea and how each functions within his philosophy in all of his writing to date. It is clearly written and cross-referenced entries make it quick and easy for you to find what you're looking for and follow the threads of Virilio's thought.

Key Features

  • Over 100 entries cover every major Virilian subject and idea, showing how each functions within his philosophy in all of his writing to date
  • Clearly written and cross-referenced entries make it quick and easy for you to find what you’re looking for and follow the threads of Virilio’s thought

Full List of Entries

A

Accident • Accident of Art • Accident Museum • Accident of Science • Aesthetics of Disappearance • Architecture • Art • Art of the Motor

B

Baudrillard, Jean • Body • Bunker Archeology

C

Catastrophe • Chronopolitics • Church of Saint-Bernadette Du Banlay • Cinema • City • City of Panic • Claustropolis • Critical Space • Cybernetic, Cybernetics • Cyberspace

D

Decomposition • Deleuze, Gilles • Desert Screen • Deterritorialisation • Dromology • Dromoeconomics • Dromomania, Dromomaniacs • Dromoscopy • Dromosphere

E

Endo-Colonisation • Escape Velocity • Events • Eye Lust

F

Fast Feminism • Fear • Feminism • Foreclosure • Futurism

G

Globalisation • Great Accelerator • Grey Ecology • Ground Zero

H

Husserl, Edmund • Hypermodernism

I

Information Bomb

K

Kittler, Friedrich, A

L

Landscape of Events • Law of Proximity • Logistics of Perception

M

Mass Individualism • Media • Merleau-Ponty, Maurice • Military–Industrial Complex • Military Space • Modernity, Modernism • Movement, Mobility

N

Negative Horizon

O

Optics • Orbital Space • Original Accident • Overexposed City

P

Perception • Phenomenology • Picnolepsy • Pitiless Art • Place • Polar Inertia • Political Economy of Speed • Politics • Politics of the Very Worst • Postmodernity, Postmodernism • Propaganda of Progress • Pure War

R

Real Time • Resistance • Revolutionary, Revelationary

S

Sedentariness • Space-Time • Speed • Speed-Space • State • State of Emergency • Stereo-Reality • Stop-Eject • Strategy of the Beyond • Suicidal State

T

Technology • Tendency • Territory • Theory • Third Interval • Trajectory

U

Ultracity • Unknown Quantity • University of Disaster

V

Vision Machine • Virtual Reality

W

War • Writing

Contributors

  • Jason Adams, Williams College, USA
  • Olga Alekseeva-Carnevali, Lancaster University, UK
  • John Armitage, Northumbria University, UK
  • John Beck, Newcastle University, UK
  • Josiane Behmoiras, The University of Melbourne, Australia
  • Shannon Bell, York University, Toronto, Canada
  • Ryan Bishop, University of Southampton, UK
  • Rob Bullard, Teesside and Northumbria Universities, UK
  • Drew S. Burk, Univocal Publishing
  • David B. Clarke, Swansea University, UK
  • Felicity Colman, Manchester Metropolitan University, UK
  • Verena Andermatt Conley, Harvard University, USA
  • Tom Conley, Harvard University, USA
  • Gerry Coulter, Bishop’s University, Sherbrooke, Quebec, Canada
  • Paul Crosthwaite is a Lecturer in English Literature at the University of Edinburgh, UK
  • Sean Cubitt is Professor of Film and Television at Goldsmiths University of London, UK
  • Hugh Davis, La Trobe University, Melbourne, Australia
  • Marcus A. Doel, Swansea University, UK
  • John David Ebert, independent American scholar and author of five books
  • Mark Featherstone, Keele University, UK
  • Brianne Gallagher, University of Hawai‘i at Mānoa, USA
  • Mike Gane, Loughborough University, UK
  • Joy Garnett, artist and writer in Brooklyn, New York, USA
  • Phil Graham, Queensland University of Technology, Australia
  • Chris Hables Gray, University of California at Santa Cruz and California State University at Monterrey Bay, USA
  • Bob Hanke, York University, Toronto, Canada
  • Robert Hassan, University of Melbourne, Australia
  • Ingrid Hoofd, National University of Singapore
  • Ian James, University of Cambridge, UK
  • George Katsonis, King’s College London, UK
  • Scott McQuire, University of Melbourne, Australia
  • Nicholas Michelson, King’s College London, UK
  • Eftychia Mikelli, BCA College, Athens, Greece
  • Nick Prior, University of Edinburgh, UK
  • Ronald E. Purser, San Francisco State University, USA
  • Julian Reid, University of Lapland, Finland
  • Stephen Sale, London Consortium, UK
  • Gregor Schuner, University of Luxembourg
  • Richard G. Smith, Swansea University, UK
  • Eric Wilson, Monash University, Melbourne, Australia
  • J. Macgregor Wise, Arizona State University, USA
  • May Ee Wong, University of California Davis, USA
  • Mark Wright, Manchester Metropolitan University, UK
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